A QUALCUNO PIACE IL CALDO?

 

immagine iStock.com/ Herman Vlad

Quos Deus perdere vult, dementat prius


 
 
 
 
 


PREFAZIONE

 

L’autore, avviatosi forse per caso verso il piacere della scrittura, rivela in questo suo recente lavoro, di essere giunto quasi vicino al massimo livello. Prima di tutto sceglie un tema di innegabile attualità, quello dei cambiamenti climatici, e poi si spinge fino a dialogare direttamente con il suo immaginario lettore e a mescolare con abilità e rigore i temi di carattere storico con altri di carattere scientifico.

Nel merito egli si mostra infastidito da quell’evidente riduzionismo interpretativo che regna sui mezzi della comunicazione di massa e che tende da un lato a guardare il mondo come destinato a un collasso imminente a causa del surriscaldamento globale e dall’altro ad indicarne l’assassino nell’opera stessa dell’uomo.

Le sue tesi di fondo sono chiarissime: primo, di cambiamenti climatici è piena la storia; secondo, l’uniformità delle leggi di natura, a partire dalle forme di irraggiamento della luce e del calore solare, è solo un pigro postulato positivista; terzo, l’azione dell’uomo, per quanto non possa sfuggire alle leggi di natura, presenta sempre notevoli spazi di intervento. E’ vero che la nostra tradizione storiografica ha sottovalutato, fino a tempi abbastanza recenti, il peso dei fattori geografici e ambientali nell’influenzare le vicende umane e che spesso ha considerato la storia non come insieme di processi di lungo periodo ma solo il luogo di eventi puntuali di mero carattere politico e militare.

Ma in tempi recenti, almeno dopo gli studi di storici come Le Goff o Braudel, ha cambiato rotta, mettendo al centro la durata e non il singolo evento, la cultura dell’ambiente e della società umana e non la sola volontà politica.

Perciò oggi la letteratura storica sugli effetti climatici nei secoli passati è davvero sterminata ed è fondata su solide basi scientifiche. 

Un esempio tra i più semplici, tanto per capirci: in tempi non lontanissimi, non può essere un caso che un’isola   ghiacciata sia stata chiamata terra verde (Groenlandia) e una pianura gelida sia stata definita terra del vino (Vinland).

In secondo luogo, che l’uniformità e la ripetitività dei fenomeni naturali e la loro sacralizzazione nelle leggi di causa ed effetto siano state alla base della fisica e cosmologia classica è un dato di tutta evidenza. Ma già Hume nel Settecento finiva per considerare questa convinzione solo una comoda e pigra abitudine della nostra mente e, in tempi più recenti, Popper sottopone ogni verità scientifica, assunta come ipotesi o congettura, sempre al rigoroso processo di falsificazione operabile da parte di una comunità scientifica matura.  

Certo, il sole non fa le bizze, non decide arbitrariamente da un giorno all’altro a che ora alzarsi e a che ora andare a dormire, ma neppure il sole è eternamente immobile e uguale a sé stesso e in un lontanissimo futuro è destinato a raffreddarsi e ad essere risucchiato da un buco nero.

Per fortuna questo evento finale sembra non riguardare noi direttamente e neppure i nostri figli e nipoti! Infine, più complesso è il tema del rapporto dell’uomo rispetto alla natura e del punto al quale oggi essa sarebbe giunto (antropocene). La convinzione più diffusa è quella di una Apocalisse quasi imminente. Come forse accadeva all’avvicinarsi dell’anno mille. L’utopia è ormai diventata distopia. E da molti l’assassino viene indicato in due soggetti, considerati spesso sinonimi: l’Occidente e il capitalismo. Ma, a ben guardare, questa è solo l’altra faccia della medaglia vista da coloro che qualche secolo fa decantavano, come dice ironicamente Leopardi, le “magnifiche sorti e progressive dell’umanità”. Apocalittici o integrati, cosi li definiva Umberto Eco in un suo memorabile saggio sessantottino.

Ora, proviamo a guardare il futuro con gli occhi del passato. Non da ieri ma da sempre stiamo rendendo artificiale il pianeta Terra. Oggi non conosciamo come potrebbe essere un mondo vegetale incontaminato perché l’agricoltura dei millenni passati lo ha totalmente cambiato. Se ho fame scopro che un seme piantato sottoterra fruttifica, se voglio correre più veloce e sicuro, costruisco una strada asfaltata. Insomma, costringo la natura a darmi cose che essa da sola non darebbe spontaneamente. Lo aveva già capito nel Seicento Francis Bacon.

La natura del sapere è fornire all’uomo un potere crescente sulla natura. In tutti campi la tecnologia ha accresciuto il dominio dell’uomo. E se tra tutte le culture della storia la più capace di costruite tecnologie nuove si è rivelata quella occidentale, ciò non è casuale né tantomeno può essere considerato una colpa. Dei suoi vantaggi era ben convinto lo stesso Karl Marx che voleva sì distruggere il capitalismo ma solo per entrate in un nuovo sistema, capace di accrescere, assieme a una maggiore giustizia sociale, anche la produzione della ricchezza.Ma il discorso non finisce qui. È indubbio che lo sviluppo umano stia avvicinandosi ai suoi limiti di sostenibilità ecologica. L’urbanizzazione della superfice terreste, la smisurata crescita demografica, la contaminazione dell’aria con gas nocivi frutto della emissione dalla combustione di elementi fossili, tutto questo ed altro contribuisce in modo significativo al riscaldamento della terra.

È vero, come dice l’autore, che il fenomeno dipende principalmente dal mutamento ciclico del pianeta, dall’alternarsi di glaciazioni e di riscaldamento. Ma ciò non azzera la responsabilità dell’uomo. L’impianto chimico delle attività umane può alterare lo strato di ozono che ci protegge dalle radiazioni solari. Il ciclo delle acque rischia di essere contaminato.

La riduzione della biodiversità offre minori risorse per il sostentamento stesso dell’uomo. Ha senso, insomma, anzi è del tutto necessario porsi oggi il problema dei limiti e delle nuove forme dello sviluppo. Credo di condividere con l’autore la convinzione che sia meglio lasciar perdere prospettive antistoriche come la decrescita felice, o l’invito alla vita povera e serena, e ogni altra forma di misticismo ecologico o di ossessione antitecnologica. La soluzione più semplice è quella di usare più tecnologia, ma finalizzandola ad ottenere un minore impatto ambientale. Si tratta in sintesi di far evolvere la tecnologia in modo da andare oltre il bisogno di sfruttare risorse naturali dirette. Ciò vale in tutti i campi: in quelli dell’alimentazione e del cibo, della sostituzione del petrolio e degli altri carburanti fossili, del ridisegno urbanistico dei mostruosi insediamenti abitativi che esplodono in ogni parte del mondo e che non possono più essere chiamati città. Mi rendo conto, e perciò chiedo perdono ai lettori, che mi sono lasciato trascinare forse troppo oltre ciò che l’autore si propone di dirci in questo libro divulgativo, graffiante come un pamphlet e genuino come l’opera di un impressionista Ma la colpa non è mia, è della mia lunga e assidua frequentazione di studi filosofici. Che poi, diciamo la verità, uno sforzo di ragionamento, un surplus di conoscenze, può solo far bene a ciascuno di noi. Come ammoniva Socrate, essere ignoranti va bene, ma non bisogna esserlo due volte. 

 

Prof. Carlo Monaco